Catene globali e manodopera a basso costo

L’industria dell’abbigliamento e delle calzature, del valore di 2,4 trilioni di dollari, è cresciuta rapidamente negli ultimi decenni, con l’aumento della domanda di abiti più economici e di una maggiore varietà, e impiega milioni di lavoratori in tutto il mondo.

La produzione e la distribuzione moderne hanno creato una “catena di montaggio globale“. Vestiti prodotti in Asia, America Latina ed est Europa arrivano negli scaffali di Stati Uniti, Canada, Europa, Giappone e Australia.

A Tirupur, in India, la “fabbrica di magliette del mondo”, oltre 200 marchi internazionali fanno produrre le loro magliette, tra cui Adidas, Marks & Spencer, Mothercare, Grays, Primark, Walmart, C&A, Levi’s e H&M.

Per mantenere bassi i costi e alti i livelli di produzione, le aziende dei paesi sviluppati esternalizzano la produzione di abiti nei paesi in via di sviluppo, dove poi si cerca la manodopera più economica. Questa competizione richiede che i paesi più poveri offrano i lavoratori più economici e le condizioni più flessibili – non regolamentate –.

Marchi e rivenditori globali spesso approfittano di diritti dei lavoratori deboli, salari bassi e sistemi di protezione sociale scadenti nei paesi esportatori, e alimentano abusi sul lavoro con pratiche commerciali sleali. I proprietari delle fabbriche spesso licenziano le lavoratrici incinte o negano il congedo di maternità, fanno ritorsioni contro i lavoratori che formano sindacati, li costringono a fare gli straordinari e chiudono un occhio quando le lavoratrici subiscono molestie sessuali.

Condizioni di lavoro precarie

I lavoratori dell’abbigliamento – per l’80% donne –  sperimentano importanti differenze a seconda che lavorino a contratto, o a domicilio in subappalto.
Le condizioni più precarie toccano ai lavoratori da casa, in fondo alla catena dell’abbigliamento, che svolgono lavoro informale pagato tipicamente a cottimo. Circa il 60% della produzione di indumenti è fatta in casa sia in Asia che in America Latina.

Uno studio di WIEGO ha rilevato che la maggior parte dei lavoratori dell’abbigliamento in subappalto ad Ahmedabad, in India, guadagna meno di 2 dollari al giorno; mentre a Lahore, in Pakistan, molti guadagnano meno di 1 dollaro.

La cancellazione di miliardi di sterline di ordini da parte dell’industria della moda a causa del Covid-19 ha lasciato lavoratori di tutto il mondo, già estremamente vulnerabili, ad affrontare la carenza cronica di cibo a causa del crollo dei salari e della chiusura delle fabbriche.

Interviste a lavoratori in Myanmar, India, Indonesia, Lesotho, Haiti, Etiopia, El Salvador, Cambogia e Bangladesh, condotte dal Worker Rights Consortium (WRC), hanno scoperto che quasi l’80% dei lavoratori soffre la fame.

Cosa possiamo fare?

L’Unione Europea è un passo più vicina allo sviluppo di regolamenti per ritenere le aziende responsabili delle proprie azioni. Nell’aprile 2020, il commissario europeo per la giustizia si è impegnato a sostenere regole vincolanti che richiedano alle aziende la dovuta diligenza sui diritti umani nelle catene di fornitura globali.

Nel frattempo, ci sono modi in cui possiamo aiutare i lavoratori dell’abbigliamento: fare pressione sui marchi affinché paghino, donare a fondi, mettere in discussione il nostro ruolo, chiedere ai marchi di rendere conto, chiedere leggi più eque a livello internazionale.

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