L’occupazione israeliana ha causato una notevole perdita di biodiversità nei territori palestinesi. Ciò ebbe inizio molti anni fa, quando Israele deviò le acque della Valle del Giordano, e quando gli alberi che circondavano i villaggi palestinesi distrutti vennero sostituiti da monocolture. Dal 1967, Israele ha sradicato 800.000 ulivi.
Mentre Israele si ritrae come una “democrazia verde”, un pioniere ecologico in tecniche agricole come irrigazione a goccia, ecologia del deserto ed energia solare, ha liquidato come “non sviluppate” le secolari e sostenibili pratiche agricole palestinesi, principalmente grano, orzo, patate, uva, olive e fichi non irrigati, e ha sviluppato piantagioni ad alta intensità di capitale per il commercio.
Con lo slogan “make the desert bloom“, il Fondo Nazionale Ebraico (JNF) si attribuisce il merito di aver piantato 250 milioni di pini europei ed eucalipti e di aver creato più di 1000 parchi. Tali foreste sono state strategicamente collocate sopra le rovine dei villaggi palestinesi distrutti, in modo che i pini a crescita rapida cancellassero la storia dell’esistenza palestinese e impedissero ai rifugiati di tornare alle loro case.
Queste specie straniere, che sostituiscono la vegetazione naturale di ulivi, carrubi e pistacchi, spesso non si adattano al suolo locale e richiedono più acqua. Inoltre, questo “inverdimento” di Israele non si estende alla Cisgiordania e a Gaza, dove le infrastrutture dell’occupazione alimentano una diffusa deforestazione. Il 95% delle foreste di Gaza sono scomparse tra il 1971 e il 1999, a causa dell’estesa diffusione degli insediamenti e delle basi militari.