Perché tutto questo rumore su due parole: “combustibili fossili”?
Sulla ventottesima Conferenza delle Parti per il cima gravava – comprensibilmente – grande scetticismo per via del conflitto di interessi incarnato dalla controversa presidenza di Al Jaber (abbiamo parlato di aspettative e contraddizioni di COP28 qui). Eppure questa COP ci ha consegnato un “risultato storico” – insufficiente, problematico, sempre politico e mai davvero vincolante, certo – ma comunque storico, nell’accezione di “primato”. Un “world’s first” nella storia della diplomazia climatica.
La conclusione del primo global stocktake, il processo con cui ogni cinque anni si valutano i progressi realizzati verso gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, era uno dei risultati più attesi da questa COP. Il testo che chiude questo primo ciclo servirà da bussola per correggere la rotta dei Paesi membri, a partire dalla presentazione di nuovi piani determinati a livello nazionale (NDCs) entro il 2025.
E in questo testo-bussola si fa, finalmente, esplicitamente riferimento ai combustibili fossili. È la prima volta dalla nascita del processo multilaterale delle Nazioni Unite sul clima, vale la pena ripeterlo, se non altro per rimarcare il paradosso di questo primato.
Non è che ci fossero dubbi sul fatto che la responsabilità primaria della crisi climatica fosse da ascrivere a petrolio, carbone e gas. È che non si era ancora riusciti a metterlo nero su bianco, con apposta la firma di 198 Paesi, tra cui grandi esportatori e grandi consumatori di queste fonti di energia.
A COP28, in un petrostato quali gli Emirati Arabi Uniti, ce l’hanno fatta. Si può definirlo un successo, quindi?
Sì e no. Parliamone.