Che cos’è il greenwashing?
Dagli anni ’90 ai giorni nostri, il concetto di greenwashing si è sempre più diffuso ed indica quei comportamenti o attività che inducono le persone a credere che un’azienda stia facendo di più per proteggere l’ambiente di quanto non faccia realmente.
Quasi quarant’anni fa compariva per la prima volta il termine greenwashing. È il 1986 quando l’ambientalista americano Jay Westerveld utilizza questa parola all’interno del suo saggio per descrivere la pratica da parte delle catene alberghiere di diffondere una comunicazione ad hoc per promuovere il riuso degli asciugamani puntando a sensibilizzare gli ospiti sull’impatto ambientale del lavaggio, anche se in realtà l’obiettivo della struttura recettiva riguarda puramente il risparmio economico.
Ad oggi, segnali tipici del greenwashing sono:
- L’uso di claim vaghi come “eco-friendly”, senza dati verificabili a supporto (il 53% delle dichiarazioni ecologiche fornisce informazioni vaghe, fuorvianti o infondate, sostiene l’Unione Europea)
- L’assenza di certificazioni riconosciute; una comunicazione “green” che prevale sulle reali pratiche sostenibili.
- La sostenibilità limitata a un solo prodotto mentre il resto della produzione rimane inquinante.
- Spesso le aziende usano immagini naturali e colori verdi per sembrare più ecologiche senza esserlo davvero.
- Inoltre, dichiarare obiettivi a lungo termine senza azioni immediate è un segnale di allarme.
Adottare pratiche di greenwashing comporta diverse conseguenze negative per le aziende. In primo luogo, si osserva un danno reputazionale significativo: i consumatori, sempre più attenti alla sostenibilità, tendono a perdere fiducia nelle aziende percepite come ingannevoli. Questo calo di fiducia può tradursi in una diminuzione delle vendite e in una perdita di quote di mercato. Dal punto di vista strettamente economico, poi, le aziende coinvolte in pratiche di greenwashing possono subire sanzioni pecuniarie. È il caso di GLS Italia.
